lunes, 26 de octubre de 2009

L'HONDURAS ALLA BATTAGLIA FINALE PER L'AMERICA LATINA

lunedì 26 ottobre 2009

Tegucigalpa. Honduras, ottobre.
Il Premio Nobel per la Pace, elogiato da Fidel, lancia l'Operazione Condor 2
L'HONDURAS ALLA BATTAGLIA FINALE PER L'AMERICA LATINA
tra fascisti e Resistenza, tra imperialismo e popoli

























Nos tienen miedo por que no tenemos miedo - Hanno paura perché noi non abbiamo paura.
(Slogan del Frente de la Resistencia contra el golpe de Estado)

Tegucigalpa, ottobre. Oggi la Resistenza si è concentrata alla UNAH, Università Nazionale Autonoma dell'Honduras, cuore della lotta studentesca. Stradone di entrata e uscita dalla capitale bloccata dai copertoni incendiati. I poliziotti robocop e i militari bardati come per un assalto a Gaza (sono ottimamente istruiti dai paramilitari colombiani e dai soliti specialisti israeliani, a disposizione di ogni efferatezza fascista in America Latina) stanno alla larga. Le migliaia accorse all'appello degli studenti dai barrios e dalle colonias (favelas) di questa città dalla cupola di merda e di dollari e dalla base di rabbia e fame, sono troppe da bastonare, gassare, sparare, intossicare con la chimica rossa al peperoncino. Ci sono stati altri due morti ammazzati, in aggiunta alla ventina documentata (poi ci sono i desaparecidos nelle carceri della tortura; anche qui, esperti israeliani): Jairo Sanchez, sindacalista che una pallottola in faccia ha ucciso dopo 21 giorni di agonia, ed Eliseo Hernandez, professore, direttore della scuola El Mateo a Santa Barbara. Il conto per oggi, ultracentesimo giorno del popolo in piazza contro il colpo di Stato, parrebbe chiuso. Quei posapiano dell'Organizzazione degli Stati Americani (OSA), terminale latinoamericano del travestimento democratico Usa, potrebbero vedersi costretti ad arricciare il naso sugli eccessi della dittatura del lumpendittatore Micheletti. Già hanno dovuto dar retta a Lula, che gli ha intimato di porre un freno all'assedio della sua ambasciata con dentro, dal 21 settembre, Mel Zelaya, presidente deposto, impegnato in un dialogo che con la teppa fascista golpista mai si sarebbe dovuto neanche concepire.
"Dialogo" tra assassini e assassinati
Il rinnegato di classe Mel Zelaya deve essere ammorbidirlo ulteriormente, visto che, accettati tutti i punti dell'accordo-truffa di San José (assemblea costituente alle calende greche, elezioni-farsa sotto controllo militare il 29 novembre, cancellazione dei provvedimenti sociali) suggerito da Washington al suo fantoccio costaricano Oscar Arias, Premio Nobel per meriti Usa, insiste sull'ultimo punto: il reinsediamento di Manuel Zelaya nella carica di presidente dell'Honduras dalla quale la notte del 28 giugno fu strappato in pigiama, con le pistole dei gorilla puntate alla testa, e sbattuto in Nicaragua. Così, dopo i gas tossici sparati nelle tubature dell'ambasciata, dopo l'ordigno dai suoni laceranti, entrambi fiori tecnologici all'occhiello dei torturatori israeliani, ora si tratta di praticare su presidente, famigliari, seguaci, personale brasiliano, il tuttora irrinunciabile metodo Guantanamo: la privazione del sonno attraverso fotoelettriche accecanti sparate nelle stanze dell'ambasciata, fragorose esercitazioni da caserma notturne sotto le finestre, strepitii di trombe, tuoni di tamburi e soprattutto l'amplificazione micidiale di quella musica rock che ha fuso il cervello dei detenuti nella base strappata a Cuba. E' in queste condizioni e in quelle quotidiane di irriducibili masse di donne, bambini, uomini massacrati dalla repressione, che si "dialoga" tra un presidente e la banda di delinquenti venduti al colonialismo gringo che lo tiene rinchiuso nel proprio paese in un'ambasciata straniera. Del resto, non aveva il rappresentante nell'OSA dell'ultrà Hillary Clinton definito Zelaya un "imprudente idiota"? Così il rappresentante del Frente, Juan Barahona, visto che lì, all'Hotel Clarion, sede del negoziato propiziato dagli sciacquapanni dell'OSA, chi ciurlava nel manico, chi faceva il pesce in barile, chi si calava i pantaloni (anche se solo fino al ginocchio), ha sbattuto la porta ed è tornato in piazza. Dove ormai, nella battaglia finale lanciata dagli Usa di Obama contro l'America Latina in progress, a partire dall'anello ritenuto più debole, tutto si decide.

Studenti
Parte la marcia verso il centro. Sono migliaia, le eterne donne dagli assalti verbali furibondi contro la teppa golpista, i quadri nati nel fuoco dello scontro da cento e cento associazioni sindacali, socialiste, dei diritti umani, di categoria, insegnanti in testa, i meticci e gli indios (sono il 90% dei 7 milioni di honduregni e riempiono per intero l'80% della povertà di questo paese che è al penultimo posto nella graduatoria continentale, prima di Haiti), qualche rinnegato della classe creola (i discendenti dei coloni spagnoli), gli studenti davanti a tutti, i meno rassegnati al pacifismo integrale del Frente. Tutti con la richiesta prioritaria su tutte: Zelaya al suo posto, e con quella strategica, imprescindibile: assemblea nazionale costituente per passare dalla Repubblica del Pentagono, di Chiquita, degli avvoltoi minerari e del disboscamento, a una società come quella di Cuba, o di Chavez, terrore dell'Impero. E' stato tolto lo stato d'assedio che la banda dei mercenari di Obama aveva proclamato a fine settembre, che aveva provocato morti, feriti, arresti, torture, desaparecidos, ma che non c'è stato giorno che la Resistenza non l'abbia sfidato. Sono stati liberati due dei tanti media d'opposizione devastati e chiusi: Radio Globo e Canale 36 (ma altri i gorilla delle dieci famiglie, in gran parte ebree, che depredano paese e popolo, i Facussé, capocomici di questo colpo di Stato, per primi, li tengono chiusi). E la marcia va a festeggiare i compagni di Radio Globo che, alla faccia delle attrezzature rubate e dei locali distrutti, hanno continuato a diffondere la parola della Resistenza attraverso internet, sfuggendo alla caccia degli sbirri, spostandosi di casa in casa, di giardino in giardino, di anfratto in anfratto, come il nostro amico Pavel, strepitoso protagonista di questa contesa tra guardie di menzogne e ladri di verità.

Nonviolenza?
A un certo punto ecco i cobras, neanche un centinaio, con quelle mazze di legno spaccaossa, i mitra, i lanciagranate CS, quelle facce che abbiamo visto a Genova, brutizzate dall'addestramento alla protervia, alla ferocia. Davanti a quest' ola di entusiasmo e determinazione, i mercenari delle Dieci Famiglie, gli ascari della Scuola delle Americhe, i pretoriani della gerarchia cattolica ed evangelica, disorientati, sbigottiti, arretrano, si limitano a seguire da lontano. Non è il momento di sparare, siamo troppi e non conviene macchiare di sangue gli sparati di chi al Clarion finge di negoziare pacificazioni. E' bastato che un centinaio di studenti, giorni prima, davanti al Clarion, per una volta reagissero al fugone disordinato della folla aggredita, ponendosi in mezzo, a copertura di donne, vecchi, deboli, ragazzini, perché la truculenza impunita dello sbirrame della dittatura vacillasse. Nos tienen miedo por que no tenemos miedo. Non è questione, ancora, di resistenza armata, come, chiamandola "insurrezione" e "terrorismo", la cricca dei golpisti la denuncia, "scoprendo" ordigni esplosivi nei centri commerciali, o puntando il dito su campi di addestramento in Nicaragua, allo scopo di liberarsi le mani a una resa dei conti militarizzata, che sia giustificabile davanti alla già collusa "comunità internazionale". C'è qualcuno che dal grasso Nord del mondo ha qui importato la burlesca fissa della "nonviolenza" da agnelli sacrificali. E così ogni lotta, ogni manifestazione ha subito lo stesso destino: botte da orbi, un omicido o due, gas venefici, panico, dispersione disordinata, traumi e senso di sconfitta. Forse da questi studenti, dai più consapevoli dei militanti sta uscendo l'intuizione che nonviolenza è soprattutto la difesa dalla violenza dei gorilla di Goriletti (detto anche Pinochetti). Che i deboli, gli indifesi di un corteo vanno protetti con servizi d'ordine che sappiano, anche a fuochi, pietrate e barricate, frenare gli attacchi della repressione, organizzare e garantire via di fuga e di riordinamento, costituire un contropotere di massa, evitare che si arrivi al punto di non poterne più di prenderle, sempre prenderle e si finisca col restare a casa. Lo hanno insegnato i boliviani, gli ecuadoriani, quando hanno cacciato i loro di Micheletti. Forse sapranno rispondere al piano repressivo che la dittatura, mostratasi irriducibile e magari domani nascosta dietro elezioni "democratiche" alla Bush, già previste sotto controllo delle Forze Armate, figurarsi, costruendo una rete clandestina di resistenza. Rete che salvaguardi la direzione e il tessuto del Fronte della Resistenza, condizione imprescindibile per quella vittoria, domani, che la maturità politica espressa da questo popolo saprà garantire a sé, facendone anche scudo ai fratelli sotto tiro Cia in tutto il continente latinoamericano, da Cuba alla Bolivia, dal Venezuela all'Ecuador, al Nicaragua, al Salvador, al Paraguay, all'Uruguay, ai rivoluzionari e ai progressisti.

Oggi, intanto, è festa e affermazione su una cricca di macellai fascisti che, abolito formalmente lo stato d'assedio e la legge marziale, sconfitti dalla disobbedienza di massa, vogliono perpetuarli nella sostanza approfittando del sonnecchiare complice dei democratici e delle sinistre di quasi tutto il mondo. Resta infatti praticata la sospensione delle libertà e dei diritti all'inviolabilità del domicilio, a manifestare, riunirsi, associarsi, comunicare in termini non di regime Qui è successo e continua a succedere un Cile 1973, quello per cui da noi i sindacati scioperavano, boicottavano, i manifestanti assediavano le ambasciate, la stampa "perbene" strepitava indignazione, Lotta Continua organizzava "Armi al MIR" (l'organizzazione del martire Miguel Enriquez che, diversamente dal PCC, non si rassegnò). Oggi silenzi e occultamenti, sparuti segnali dei pochi cui è rimasto la consapevolezza che la battaglia internazionalista contro fascismo e imperialismo è la chiave anche per affrontare la propria macelleria sociale, la chiave di un futuro o da fine del mondo, o di liberazione per tutti. Si attraversano i quartieri delle casupole e delle baracche, con i cartelli delle parole d'ordine tracciati da donne proletarie e sottoproletarie, incredibilmente consapevoli, accolti dalle donne delle baraccopoli che dall'inedia del dollaro al giorno riescono a estrarre pasti per chi resiste nelle piazze. Veniamo infoltiti dalle vittime della sopravvivenza senza lavoro, senza scuola, senza sanità, che da quattro mesi sfidano lesioni, arresti, abusi e morte per arrivare a dire finalmente la loro sul destino di questo paese. Ogni incontro, pure rinnovatosi tutti i giorni, è avvolto in un'affettività che sprigiona calore da unità d'intenti, un rete d'amore contrapposta alla gelida complicità di quei quattro becchini della giustizia e della vita nascosti dietro ai loro pretoriani. E gli studenti coronano la giornata accendendo nel buio mille fiaccole, dando ulteriore nerbo alla resistenza con quell'enorme falò che incenerisce il Micheletti-fantoccio vestito di bandiera Usa. Sacrosanto falò di sostanze tossiche, di quelli che tanto scandalizzano i tutori della "società civile" quando s'inceneriscono stelle di Davide, pupazzi di mercenari o vessilli a stelle e strisce.













Carlos Reyes



Billy Joya














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